In questo articolo, Andrea Dari fà una analisi lucida, istruttiva ma anche spietata dei problemi sull’ambiente, in particolare dalla produzione di CO2, e delle guerre commerciali in corso.
Ma non si limita a denunciarne la dimensione e l’impatto sulla vita economica di tutti noi ma indica anche i percorsi principali per uscirne.
Nell’abstract un estratto significativo del tema.
Nell’allegato, l’articolo completo.
Da non specialista, l’articolo mi ha affascinato: dà una informazione e visione globale del tema come non ero ancora riuscito a ricostruire.
Tanto di cappello!
Livio Izzo
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Per ridurre l’impatto sul clima da parte dell’industria e del trasporto aereo, 31 Paesi hanno firmato un patto che limita le emissioni prodotte. Questo patto interessa circa il 45% delle emissioni di gas a effetto serra dell’UE e riguarda ovviamente anche il raggiungimento dell’obiettivo 13 (e ovviamente altri).
Cosa prevede questo patto?
In sostanza, dal 2005 l’Unione Europea ha istituito una specie di mercato delle emissioni di CO2, conosciuto anche come ETS (Emission Trading System), che è di fatto la principale politica comunitaria per contrastare i cambiamenti climatici e ridurre le emissioni di gas a effetto serra. L’ETS è il primo mercato al mondo di CO2 e si basa sul principio del “cap and trade” (“limita e scambia”).
Per ridurre le emissioni dei settori industriali, l’Unione ha fissato il totale di emissioni di gas serra (cap) dei diversi settori: le aziende hanno a disposizione un numero fisso di “quote”, che ufficialmente si chiamano European Emission Allowance (EUA), ognuna delle quali permette l’emissione di una tonnellata di CO2 in un anno solare.
Negli anni il tetto massimo è stato progressivamente abbassato, in modo da ridurre anche le emissioni di gas serra nell’atmosfera, e calerà progressivamente, costringendo tutte le aziende a inquinare di meno. Le quote assegnate ogni anno sono però cedibili: le aziende possono ricevere o acquistare all’asta le quote da altre aziende o, nel caso in cui riescano a ridurre le emissioni dei propri impianti, possono rivendere le loro quote ad aziende che rilasciano emissioni clima alteranti (trade). L’importante è che il tetto massimo di emissioni a livello europeo non venga sforato, in quel caso è prevista una multa per le aziende che hanno emissioni clima alteranti superiori a quanto permesso dalle quote verdi in loro possesso (che più o meno si aggira intorno ai 100 euro per tonnellata di CO2).
Dal 2013 al 2020, il tetto massimo di emissioni concesse alle centrali elettriche e alle industrie ad alta intensità energetica (cioè quelle che producono ferro, alluminio, cemento, vetro, cartone o acidi) è stata diminuita dell’1,74 per cento ogni anno. Da quest’anno, il 2021, fino al 2030 la riduzione sarà del 2,2 per cento annuo. Il primo obiettivo era quello di arrivare a un calo complessivo per questi settori del 21 per cento nel 2020 rispetto ai livelli del 2005 (quando venne istituito l’ETS) e di almeno il 43 per cento entro il 2030.
Questa riduzione ha spinto i prezzi del carbonio in Europa a raggiungere il massimo storico di quasi 40 euro per tonnellata di CO2 equivalente. Ma non è solo un problema di «domanda industriale»: l’anno scorso il valore dei mercati globali del carbonio ha raggiunto il record di 229 miliardi di euro, un aumento di cinque volte rispetto al 2017. Il sistema di scambio delle emissioni (ETS) dell’UE rappresenta quasi nove decimi di quel valore e di quella crescita (quello della Cina è appena iniziato). Nel 2020 circa un miliardo di euro di permessi di emissione è passato di mano al giorno, così come un sacco di opzioni e contratti futures. Il mercato sta entrando nel mainstream finanziario, con centinaia di società di investimento che vi operano. Il rischio è quindi che il costo di questa «nuova materia prima» sia oggetto di speculazioni finanziare, che possono avere ricadute terribili sulle strategie industriali internazionali.
Per comprenderlo basta vedere che nel 2020 erano circa 230 i fondi d’investimento che detenevano futures legati alle quote, contro i 140 del 2019. Rappresentano solo il 5% circa del mercato dei futures, ma è una quota crescente e rialzista. Le posizioni lunghe, o le scommesse che il prezzo salirà, sono raddoppiate da novembre. Molti analisti si aspettano che l’obiettivo del 55% dell’UE richiederà un calo del numero di quote e un aumento dei prezzi, forse verso gli 80 euro a tonnellata.
La fine dell’industria europea?
Pensiamo ora all’Italia e prendiamo il caso «Cemento». Il Cemento è un prodotto insostituibile. Non si può realizzare una fondazione, l’involucro di una galleria, le pile di un pinte, le traversine di una rete ferroviaria, le banchine di un porto, una pavimentazione industriale … con altri materiali. E la maggior parte delle opere di costruzione sono realizzate con materiali cementizi. Dopo l’Acqua il Calcestruzzo è il componenti più utilizzato al mondo. L’industria del cemento è quindi strategica per un Paese, dipendere dalla fornitura esterna vuol dire dare a terzi le chiavi degli investimenti in infrastrutture, in gestione dell’ambiente costruito, ….
L’industria del Cemento produce però CO2 e quindi le aziende devono acquisire quote di CO2 per produrre cemento. A 40€ la tonnellata, la CO2 già incide per il 50% dei costi di produzione del cemento. A 80 euro la tonnellata cosa succederà?
È vero che una parte di CO2 viene data «in omaggio» da ogni Paese per contrastare lo squilibrio commerciale internazionale, ma come abbiamo già visto sono oltre tre anni che questa quota è insufficiente per coprire il problema. A distanze ravvicinate, affacciati sul mare mediterraneo ci sono Paesi che non hanno firmato il protocollo di Parigi, che non hanno stabilito limiti per la CO2. Stando ai dati aggiornati a settembre 2018, sono 53 le iniziative globali che prevedono uno schema di “carbon pricing”. Nel 2018 queste misure hanno coperto soltanto il 19,8% delle emissioni annue di CO2 in tutto il mondo.
Detto in altri termini, circa l’80% delle emissioni di CO2 globali non prevede alcun tipo di regolamentazione.
Diventeranno i nuovi Paesi industrializzati degli anni 2030?
È chiaro quindi che le scelte che si devono compiere per migliorare l’obiettivo 13 devono tenere conto della necessità di non calpestare gli aspetti inerenti l’obiettivo 8, ovvero, come ho già scritto, promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena occupazione e il lavoro dignitoso per tutti.
Come farlo?
Chicco Testa nel libro «Elogio della crescita felice» affronta questi temi con cinica lucidità. Tra gli altri analizza il tema dell’energia, ed evidenzia come oggi l’energia più «pulita» che abbiamo a disposizione è quella nucleare. Ed è anche la più economica. La Francia ha quindi un doppio valore competitivo rispetto all’Italia: produce un’energia che costa meno e consuma meno CO2. Ma è una scelta politicamente difficile. Da noi abbiamo scelto in modo diverso.
Soluzioni: i “dazi climatici”?
Guardando a quali Paesi hanno preso impegni forti sul tema della sostenibilità – sulla falsa riga di quanto hanno fatto quelli europei – ci si accorge che si sono di fatto defilati Cina, Stati Uniti, Australia, India, Brasile, Sud Africa, i paesi del Maghreb …
Cinicamente possiamo osservare che tutti questi Paesi stiano godendo degli sforzi fatti dagli Stati più virtuosi, producendo e disinteressandosi delle emissioni e così, almeno per alcuni anni, le loro merci costeranno meno. È un dumping intollerabile e ingiusto.
Su questo fronte la soluzione più semplice o semplicistica da applicare, è quella di introdurre una sorta di “carbon tax” o “dazio climatico”, ovvero che i Paesi “climaticamente virtuosi” facciano pagare a quelli che irresponsabilmente non assumono impegni concreti, i benefici di cui comunque usufruiranno per lo sforzo altrui. Quindi un sistema di tassazione degli scambi commerciali internazionali che, al costo di qualsiasi merce, aggiunga un costo ecologico calcolato in base ai gas serra emessi per la sua produzione.
Una scelta facile ma difficile da applicare e forse da sostenere. Innanzitutto perchè poi il “Paese inquinatore» potrebbe introdurre dei controdazi, come già accaduto nello scontro USA-CINA. Ma anche perchè, essendo l’Europa un Continente che produce sempre meno una tassazione di questo tipo, finirebbe per creare un diffuso aumento dei costi delle materie prime e di conseguenza dei prezzi di mercato, finendo per pesare sulle tasche del cittadino.
E alla lunga non ci si potrà che rendere conto che anche la tassazione esclusivamente intra mercato diventerà talmente insostenibile da dover trovare altre soluzioni incentivanti.
Purtroppo le scorciatoie su problemi così complessi come quelli della regolazione dei mercati internazionali non funzionano.
,,,, di seguito l’articolo completo…. con proposte molto interessanti ed originali sulle soluzioni…… senza scorciatoie….
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